Beata homoignorance!

 I risultati di un sondaggio al convegno “Omofobia sociale e interiorizzata: come curarla” dell’Ordine degli Psicologi del Lazio

Qualche volta le cifre parlano da sé, qualche altra volta bisogna saperle interpretare. Sabato 20 settembre, in una bella sala della Biblioteca Nazionale Centrale, le cifre hanno, a modo loro, urlato.
L’Ordine degli Psicologi del Lazio ha organizzato un’interessante mattinata sul tema “Omofobia sociale e interiorizzata: come curarla”. Dalle 9 di mattina fin quasi alle 14 i relatori Vittorio Lingiardi, Nicola Nardelli, Emma Baumgartner e Luigi Manconi hanno presentato i loro interventi sul difficile tema dell’omofobia sociale e interiorizzata. Che, diciamolo subito, interiorizziamo solo noi gay, lesbiche bisessuali e trans, perché in giro sembra che in tanti ce l’abbiano ben esteriorizzata e non sembrino soffrirne particolarmente. Misteri di una fobia che spaventa più l’oggetto della stessa che chi ne è affetto…

La Dr.ssa Marialori Zaccaria, Presidente dell’Ordine del Lazio, ha presieduto il convegno con garbo e chiarezza, e a lei va la mia stima per aver organizzato un evento così importante proprio mentre il nostro Parlamento è preoccupato più della libertà di insultare di alcuni che delle offese e delle violenze contro omosessuali e transessuali di questo Paese. Inoltre vorrei sottolineare che questo congresso ha presentato le Linee Guida dell’ordine degli Psicologi del Lazio per l’accoglienza e l’ascolto dei pazienti omosessuali e bisessuali, contenute nell’ottimo volume “Etica Competenze e Buone Prassi” di Raffaello Cortina Editorie, inviato a ogni iscritto. Non è superfluo sottolineare la posizione ufficiale dell’Ordine, che indica chiaramente come sia l’omofobia la “malattia” da curare, non certo l’omosessualità. Ancora più lodevole dunque che questo convegno non nasconda ma anzi illumini, perché possano essere superate, le difficoltà di alcuni psicologi nell’affrontare la questione. Un’opera di chiarezza e aggiornamento che va ad onore di tutti gli psicologi.

Il prof. Vittorio Lingiardi non è stato solo chiaro e competente, ma anche paziente e cordiale con chi, tra il pubblico degli psicologi invitati, ha fatto domande di questo tenore: “Perché parlate tanto di orientamento sessuale? Allora anche la pedofilia è un orientamento sessuale…”. Oppure chi, da psicoterapeuta, dichiarava con “evangelica” veemenza che se un paziente si rivolge a lei per cambiare orientamento “perché non dovrei fare ogni sforzo per migliorarlo?” Sottolineo l’accurata scelta del termine: “migliorarlo”. Ma si è trattato di casi isolati: la platea era tutta interessata e attenta, e di tutt’altro avviso.

Tuttavia non sono le confusioni di alcuni o le ideologie di altri che mi hanno colpito. Quanto i risultati di un sondaggio sul 9% circa degli psicologi iscritti all’Ordine, raggiunti per email su tutto il territorio nazionale (Lingiardi, Nardelli, 2011). Il Dr. Nardelli ci ha non troppo allegramente intrattenuto (non certo per sua colpa) con Chiquadro, tabelle di contingenza, significatività del campione (circa 3000 persone) e altre amenità statistiche, fotografando una situazione che mi spiace definire per certi versi preoccupante. Ecco a voi, per il vostro piacere intellettuale e filosofico, alcuni dei dati che ho trascritto sui miei appunti e dai quali ho tratto una spiacevole, ancorché provvisoria, conclusione. Seduto a metà sala osservo, dapprima incuriosito poi sempre più preoccupato, una successione di dati di questo tenore: il 24% degli intervistati NON ritiene l’omosessualità una normale variante della sessualità umana. Di questi il 10% la ritiene anormale e il 14% è così in dubbio da non saper dare una risposta che 40 anni fa l’American Psychiatric Association e 30 anni fa l’OMS hanno saputo dare. È  possibile, mi chiedo, che decisioni così “recenti” non siano ancora entrate nel bagaglio professionale di tutti? Ma mi mantengo positivo: il 75% dei miei colleghi ha un’opinione diversa. Bene!

Così, mentre continuano a scorrere slide in cui si riportano percentuali sull’opinione di alcuni miei colleghi sull’omogenitorialità (favorevole solo il 58%, ma su questo personalmente sono più incline a comprendere, ma non a giustificare, le resistenze delle diverse impostazioni pedagogiche), e buone notizie (il 58% dei miei colleghi è a favore del riconoscimento legislativo delle unioni civili per coppie dello stesso sesso), passiamo a numeri ben più preoccupanti: il 56% degli intervistati interverrebbe per modificare l’orientamento “egodistonico” di un paziente che ne facesse esplicita richiesta anziché sull’egodistonia (il non accettare il proprio orientamento sessuale). Il 2% lo farebbe comunque, richiesto o meno, perché per loro è chiaro che il problema è lì … Mi stropiccio gli occhi, guardo il calendario del mio cellulare: conferma che siamo nel 2013 in Italia e non nella Russia di Putin. Concludo che deve essermi sfuggito qualcosa. Ma la meraviglia è un’emozione strana, che non demorde se si colora di inquietudine. Così, amara in fundo, appare un’altra slide con delle percentuali per le quali non intendo usare aggettivi: il 25% dei miei colleghi intervistati dichiara di essere scarsamente preparato sul tema dell’omosessualità e della bisessualità, mentre un 60% ammette con grande sincerità di non essere per nulla preparato.

Ora scusate ma non riesco a trattenere una volgare interiezione che ha anche il valore di un’invocazione apotropaica: oh cazzo! Ricapitoliamo: il 56% (+2%, che quindi diventa 58%) dichiara che interverrebbe a “cambiare” l’orientamento sessuale di un paziente e un 85% (60%+25%) si dichiara poco o per nulla preparato proprio sull’ambito in cui, per ovvia sovrapposizione delle percentuali, interverrebbe. Come dire: non ne so un cazzo, ma ti “curo” lo stesso!? Onore a tutti coloro i quali, ritenendosi poco preparati,  non interverrebbero per modificare l’orientamento sessuale di un cliente: a spanne e con un calcolo acrobatico sono un buon 25%.

Ecco cosa si intende per omofobia (o meglio omonegatività) sociale: l’omosessualità è totalmente al di fuori dell’orizzonte di intervento dell’ 85% dei miei colleghi. Evenienza questa già singolare perché dubito davvero che durante la sua carriera uno psicologo non abbia mai incontrato un gay, una lesbica o un bisessuale e che, spinto da questo incontro, non abbia approfondito. Ma che fa ipotizzare anche e forse più dolorosamente che questi pazienti non si siano sentiti autorizzati a parlare di quest’aspetto fondamentale della loro esistenza, perché preoccupati  di un rifiuto o che questo li avrebbe etichettati ipso facto come “anormali”. E non parliamo di piccoli numeri. A spanne i pazienti lgbt dovrebbero essere almeno il 10% della popolazione clinica, nell’ipotesi poco probabile che questa sia un campione rappresentativo dell’intera popolazione, ma più realisticamente la percentuale dovrebbe alzarsi non poco perché il minority stress, ossia lo stigma sociale a cui vanno incontro le minoranze sessuali, è causalmente collegato all’insorgenza di diverse patologie, la prima delle quali è la depressione e il suicidio, soprattutto negli adolescenti. EPPURE nonostante questa ampia ignoranza sul tema (anche comprensibile: non si può sapere tutto di tutto e se non si vuole operare professionalmente con un gruppo sociale è più che lecito non farlo) si procede comunque a intervenire, ignari delle raccomandazioni scientifiche degli organismi internazionali più accreditati e ora anche dell’Ordine degli Psicologi che sono concordi nel dire che gli interventi intesi a cambiare l’orientamento sessuale sono inutili e possono essere anche gravemente dannosi.

Ora, sia chiaro, non bisogna fare di tutta l’erba il proverbiale fascio. Ci sono molte considerazioni da fare rispetto a questo questionario: non ha distinto tra psicoterapeuti, psicologi che si occupano di clinica e psicologi impegnati in consulenze di lavoro e organizzative, non ha presentato tabelle di contingenza sull’età dei partecipanti (come rispondono gli psicologi più giovani? L’esperienza modifica le risposte? La mancanza di informazione è dovuta alle scuole di formazione e/o alle università che non trattano esplicitamente l’accoglienza dei pazienti omosessuali? Oppure gli psicologi più anziani sono ancora condizionati da impostazioni psicopatologiche e psicoanalitiche ormai superate? E’ un problema di aggiornamento?), il campione pur essendo molto ampio non è rappresentativo rispetto al numero di variabili indagate. Per questo non si possono tirare conclusioni affrettate, né mi permetto di farlo e di lanciarmi in facili generalizzazioni: da paziente prima e da psicologo ora ho sempre incontrato professionisti sensibili e rispettosi. E ho fondati motivi per credere che la situazione non può che migliorare. Così personalmente considero questo questionario e i risultati che ha fornito come un interessante modo per capire come la pensano circa 3000 miei colleghi in tutta Italia: uno schizzo, più che un quadro esatto.
Per questo plaudo all’iniziativa di sabato scorso: incontri come questo dovrebbero essere molto più frequenti e trattare i diversi temi collegati all’accoglienza delle persone lgbt, che, ricordiamolo, sono solo un esempio del più ampio e sfaccettato tema dell’accoglienza della diversità: sessuale, culturale, religiosa, etnica.

Per questo mi piacerebbe fare mia e rilanciare la proposta di un collega che assisteva con me al congresso: perché non creare dei gruppi di studio all’interno degli Ordini regionali che si occupino di organizzare iniziative di aggiornamento sul tema della differenza sessuale e dell’accoglienza delle persone lgbt, sia in ambito clinico che sociale e organizzativo? D’altronde se dovessi trovare un comun denominatore all’operato degli psicologi è proprio la capacità di costruire forme di convivenza che garantiscano il pieno sviluppo delle potenzialità delle persone e delle organizzazioni. E le persone lgbt sono cittadini, lavoratori, contribuenti, figli e genitori come tutti – e come tutti hanno diritto ad un ascolto particolare. A questo punto un gelato è d’obbligo.

LINGIARDI, V., NARDELLI, N. (2011), “Psicologi e omosessualità”. In Notiziario dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, 3/2010 -1/20122, pp. 17-29

2 pensieri su “Beata homoignorance!

  1. Articolo interessante: ma veramente il 58% a favore del riconoscimento legislativo delle unioni civili per coppie dello stesso sesso ti sembra una buona notizia?
    Armida

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