Darwin, bugie e serie tv

Vi propongo un semplice test: quale tra queste due frasi vi piace di più?

a)      Socrate è uomo, quindi morirà.

b)     Tutti gli uomini muoiono. Socrate è un uomo. Quindi Socrate morirà.

Azzardo: la prima è più gradevole. Eppure sono perfettamente equivalenti: sono infatti sicuro che queste brevissime argomentazioni dimostrino con ragionevole certezza che Socrate (chiunque sia) dovrà morire.

I più giovani tra noi, soprattutto se liceali al terzo anno, o i più “secchioni” avranno riconosciuto che l’opzione “b” è un sillogismo. Forse meno membri del primo gruppo, e quelli davvero “secchioni” del secondo, avranno riconosciuto nella prima frasetta un entimema.

Di cosa sto parlando? Un entimema è una sorta di ragionamento in cui una delle premesse viene omessa. A che pro? vi chiederete (o forse non ve lo chiedete, ma ormai avete capito: ve lo sto per dire comunque …).Aristotele poneva proprio l’entimema alla base della retorica, ossia dell’arte complessa di convincere un uditorio delle proprie buone ragioni. Riflettendoci, tuttavia, mi è sembrato almeno singolare che si preferisca una deduzione in cui manca un passaggio a un ragionamento in cui tutti i passaggi filano chiari ed evidenti.

Un ragionamento monco invece, dice il Filosofo, è più efficace di uno con tutte le premesse esplicite, perché lascia a chi ascolta il gusto di scoprire il collegamento sottinteso. Quando ci si riesce ci si sentirà intelligenti. Insomma, è un modo per “lusingare” l’ascoltatore ,dunque? E perché, invece che intelligente, chi segue un discorso “entimematico” non si sente piuttosto stanco e affaticato da tutto questo lavoro di ricostruzione?

A questa domanda spero di dare una risposta – facendo tutti i passaggi, o forse (perché no?) lasciando qualcosa di sottinteso…

Per cominciare, un’osservazione antropologica: quando parliamo siamo continuamente “entimematici” – omettiamo con estrema facilità premesse che ci appaiono più o meno ovvie. Non è quindi una tecnica in uso tra principi del foro, oratori parlamentari e politici televisivi. Anzi, è vero l’opposto: politici, avvocati e oratori sono efficaci perché utilizzano “al meglio”, consapevolmente, qualcosa che noi di continuo facciamo e che quindi riconosciamo familiare.

Il vizietto di omettere premesse è così radicato in tutti noi che facciamo anche una gran fatica a chiarire e chiedere conferma quando comunichiamo (e non mi riferisco al semplice fatto di non aver sentito quel che è stato detto): vivere “entimematicamente” vuol dire vivere nel rischio costante dell’equivoco e del conflitto.
Non si tratta di una semplice “dimenticanza” o di un atteggiamento per così dire inconscio: altrettanto spesso scegliamo di nascondere deliberatamente premesse riguardanti  emozioni, sentimenti, intenzioni, ma anche informazioni in nostro possesso. Questa nostra tendenza alla dissimulazione e il conseguente sforzo di  capire  cosa dice e fa chi ci sta di fronte è uno dei meccanismi di base di ogni storia; la rappresentiamo attraverso il cinema, il teatro, i fumetti o le serie tv. Tutte cose, peraltro, che ci danno un gran piacere …
Al cinema o in tv, a teatro o su un fumetto, il gioco che ci propone ogni personaggio (tranne quelli noiosi, ovviamente) è di capire perché fa, dice o trae conclusioni proprio nei modi che osserviamo. Gli autori ci nascondo parte delle premesse che motivano un personaggio per stimolare la nostra innata curiosità. Inoltre, nascondere una premessa può produrre situazioni comiche e surreali o piene di misero e suspense, come nei gialli.

Potremmo concludere che a noi esseri umani piace molto “leggere” la mente altrui. Il vecchio, classico fascino del mistero. Capire qualcosa di difficile o inafferrabile come lo stato mentale di chi ci sta di fronte, inferendolo dalle sue azioni, è forse più gustoso del sesso, visto che lo facciamo con molta più frequenza di quest’ultimo. Ma può essere quanto di più complicato, se abbiamo una sindrome dello spettro autistico. Chi soffre di questo disturbo infatti ha proprio, tra le altre difficoltà, quella di non riuscire a costruirsi un’immagine degli altri come dotati di intenzioni, emozioni e desideri.

Perché per noi esseri umani è così interessante “pensare a quello che gli altri pensano”?

Facciamo un passo indietro. L’abilità di metterci nei panni altrui si sviluppa gradualmente nel tempo. I bambini acquisiscono la capacità di attribuire agli altri conoscenze, pensieri e intenzioni intorno ai quattro anni. Esistono diversi esperimenti che dimostrano quando il cucciolo umano riesce a distinguere le sue conoscenze da quelle degli altri. Ecco qualcosa che potreste divertirvi a fare con i vostri figli o nipotini (prima dei 4 anni sarà curioso vedere come sbagliano quasi tutti). Si chiama il test delle false credenze.

Si tratta di un gioco in cui alla vostra amabile “cavia” umana presenterete due bambole: una, Sally, porta un cestino, e l’altra, Ann, ha una scatola (qui potete variare – chiamatele come vi pare, non c’è bisogno che siano due bambole. Magari il pargolo o la pargola apprezzano di più gli orsacchiotti. Per i contenitori, l’importante è che siano molto molto diversi perché possano chiaramente distinguerli, come vi sarà chiaro continuando a leggere).
Ora raccontate una storiella in cui Sally esce a passeggio dopo aver messo una biglia nel proprio cestino e averlo coperto in modo che non si veda. Ma ecco che arriva Ann, che prende la biglia dal cestino e la nasconde nella sua scatola. A questo punto, Sally torna perché vuole giocare con la biglia e … Stop! Chiedete all’infante: “ Dove guarderà Sally per prendere la biglia?”.

Se il bambino risponde che Sally la cercherà nella scatola di Ann, allora vuol dire che non è ancora in grado di formulare “false credenze”, ovvero non è in grado di conoscere gli stati mentali altrui: ha confuso infatti quello che lui o lei sa con quello che Sally dovrebbe sapere.

Notate che tutto il test è abbastanza machiavellico: una delle due bambole frega una biglia all’altra e la nasconde! Altro che “entimema”: qui siamo al sotterfugio, alla manipolazione e direi quasi alla menzogna …

E infatti uno dei segnali inconfondibili che il pargoletto ha acquisito compiutamente una teoria della mente si ha quando per la prima volta dice una bugia.

A rifletterci, mentire è un capolavoro di lettura della mente altrui: richiede che chi sta per spararla grossa abbia una chiara comprensione di come reagirà l’interlocutore, di quali siano le cose credibili per lui o lei, e di cosa invece sarebbe troppo strano o implausibile. E sfruttando questa conoscenza probabilistica, l’artista della menzogna deve confezionare una storia che colleghi tutti questi elementi tra di loro. E omettere parecchio: entimemi a go go!

Uno psicologo evoluzionista,  Nicolas Humphreys, giustamente famoso per il suo contributo, definisce questa nostra capacità proprio “intelligenza machiavellica”. Secondo quest’autore, l’evoluzione della nostra specie ha intensificato le capacità di interpretare il comportamento dei nostri simili in termini di intenzioni nascoste. Questa abilità, si noti, è presente anche nelle scimmie antropomorfe, ossia negli scimpanzé, nei bonobo, nei gorilla e negli orangutan. Per  poter vivere in società complesse, abbiamo dovuto sviluppare una altrettanto complessa capacità di decifrare e manipolare le menti altrui. Sesso, potere, lavoro in gruppo, divertimento: tutto dipende dalla competenza di comprendere gli altri, coordinarci con loro e portarli dove vorremmo noi – abbastanza spesso almeno.

C. Darwin

Per questo comprendere la “reale” intenzione dei nostri simili ci piace così tanto e ci dà un tale senso di competenza: come immagino che volare sia piacevole per un uccello, comprendere gli altri deve essere altrettanto piacevole per noi. Insomma, alla fine Darwin ci spiega perché ci piace tanto Shakespeare, Lost o Beautiful

E voi che ne pensate?

P.S.
Non mi arrischio proprio a indovinare i vostri pensieri!

4 pensieri su “Darwin, bugie e serie tv

  1. Mio caro Sigmund, ho particolarmente apprezzato questo suo contributo. Sono nota per uno stile di ragionamento che si allontana molto dalla summenzionata modalità “entimematica”: chi mi vuol bene, dice che mi produco in “doppi carpiati”. Sarà per questo motivo che ci ho messo un po’ a comprendere una serie di caratteristiche peculiari della comunicazione in rete, oltre che per inesperienza e ingenuità?
    Non è il caso che le sottoponga le mie tristi vicissitudini di internauta alle prese con la comunicazione virtuale. Ho cercato di approfondire l’argomento essendo intenzionata a scrivere un manuale di istruzioni per l’uso e/o di sopravvivenza dal titolo provvisorio “Grammatica e sintassi della comunicazione in rete”.
    Quanto lei scrive arricchirà il mio studio andandosi ad integrare alla “Pragmatica della comunicazione”, ad Adler e Towne et alii. Un affettuoso saluto

    1. Gentile Rosanna,
      grazie dei complimenti. Davvero mi mette insieme a Watzlawick? Lusingatissimo, ma non credo di essere all’altezza.
      Interessante il suo progetto. Se può mi (ci) tenga al corrente.
      A presto!

  2. Finalmente, nel momento in cui verrò accusata di fare discorsi omettendo passaggi essenziali, potrò tirare fuori questo articolo e dire che lo faccio per stimolare l’intelligenza del mio interlocutore!
    Interessante digressione…

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