Indovinare allunga la vita: ecco perché (II parte)

di Stefano Ventura

Grazie di cuore dell’inattesa partecipazione all’enigmatica prima parte di questo post! Se ve la siete persa e volete provare a risolvere l’indovinello come hanno fatto tanti altri lettori, dategli un’occhiata prima di continuare: lo trovate qui.

E benvenute e benvenuti all’attesa seconda parte del gioco più entusiasmante dell’estate (sapete che sono ottimista, per questo talvolta mi lancio nell’auto-apprezzamento).

Poiché nutro una ragionevole fiducia che nessuno di voi abbia perduto il sonno cercando di scoprire la regola che è dietro la tripletta (e dietro a tutte le triplette corrette che avete proposto), posso permettermi di farvi aspettare ancora un po’, introducendo una domanda ben più difficile dell’indovinello 2-4-6.
A che scopo pensiamo?

Proprio così, mi e vi chiedo a che serve pensare, anche se ovviamente non pretendo di avere la risposta a una domanda così complicata (per alcuni) o così inutile e ovvia (per altri). Di indovinelli ne avrete abbastanza, quindi vi dico subito la risposta che credo migliore: pensiamo per risolvere i problemi che incontriamo nella nostra vita. 150.000 anni fa  i nostri progenitori, nelle savane africane dove ci siamo evoluti, dovevano risolvere una gran quantità di problemi per sopravvivere. Per nostra fortuna furono abbastanza intelligenti da riuscirci e permettermi di scrivere qui e ora questo post (grazie progenitori!). Dobbiamo risolvere problemi lavorando, cercando di interpretare le intenzioni dei nostri simili, cercando di riprodurci (o almeno di fare sesso quanto riteniamo necessario), sforzandoci di mantenere una certa immagine di noi, ossia una adeguata autostima … per noi primati infatti (lemuri, scimmie, gorilla, oranghi, scimpanzé, bonobo, homo) è molto importante capire dove siamo nella gerarchia sociale e come dobbiamo considerarci in base ad essa. Problemi su problemi quindi!

Pensare, oltre che uno sforzo, è un’attività gratificante quando troviamo la soluzione del problema. “Eureka!” a ben vedere è un’esclamazione di soddisfazione. Ovviamente se pensare fosse stata solo un’attività dolorosa, difficile e frustrante, ora pascoleremmo soddisfatti i fondali melmosi dell’oceano alla ricerca di alghe come placidi molluschi. Eppure mi domando… Forse è controintuitivo per noi, ma la loro strategia di sopravvivenza ha una storia di successo di milioni e milioni di anni. Sono qui da più tempo di noi, quindi devono avere qualcosa da insegnarci su come si sta al  mondo. O no?

Ma torniamo a noi: cosa c’entra questa digressione sui massimi sistemi con la soluzione del nostro innocuo giochino?
Questo “giochino”, in realtà, è un noto esperimento di psicologia del ragionamento, proposto da un grande scienziato cognitivo, Peter Wason. Sulla base dei risultati, teorizzò il cosiddetto “confirmation bias” – ovvero la distorsione da conferma.  Quando siamo alle prese con la verifica di un’ipotesi, ci sforziamo di CONFERMARLA invece che FALSIFICARLA. Cerchiamo di verificare se abbiamo ragione, non se abbiamo torto! Questo perché avere ragione è intrinsecamente premiante (“Eureka!”) o almeno ci dà un senso (talvolta falso!) di sicurezza sul nostro procedere. Con il risultato che possiamo addirittura prendere strade sbagliate per secoli, convinti che siano del tutto corrette. Pensate ad esempio a concezioni scientifiche ormai tramontate, come la fisica aristotelica. Immaginate quanto sforzo è stato fatto, e quanto geniale fosse quindi Galileo, a capire che due corpi di materiale diverso ma di forma uguale sarebbero caduti a una velocità pressoché identica indipendentemente dal loro peso! O a formulare il principio di inerzia. O pensate a Torricelli che dimostrò che in natura esiste il vuoto, con il suo celebre esperimento del mercurio, che sfidava il principio (sempre aristotelico) dell’horror vacui, cioè la natura avrebbe orrore del vuoto. O Pasteur che dimostrò che la “generazione spontanea” non esiste…

 

Interessante, certo – ma cosa c’entra con la nostra vita quotidiana, la felicità e la tristezza? Supponiamo di stare passando un periodo non proprio bello, e di cominciare a considerarci in modo molto critico, di aver sbagliato molte, troppe cose, di essere colpevoli del nostro sostanziale fallimento, di essere dei “falliti”. La svalutazione di sé e l’autoaccusa sono due delle caratteristiche della depressione maggiore. Secondo voi, in questa particolare condizione emotiva, cercheremo nel nostro passato conferme del nostro scarso valore, o ci metteremo di buona lena a mettere in fila tutte le prove contrarie? La risposta è ovvia, ed è uno dei motivi per cui esistono gli psicoterapeuti…

Inoltre, seguendo la nostra naturale inclinazione a preferire le conferme piuttosto che le smentite, finiamo per credere a chiunque possa produrre prove a favore delle sue tesi: pensate alla forza che hanno le medicine alternative, l’omeopatia, l’agopuntura, alcune psicoterapie, l’astrologia: tutte pratiche per le quali abbondano storie e aneddoti che ne confermano la “verità” o l’ “efficacia”, trascurando completamente tutte le prove contrarie.

E ora, per non smentire l’importanza che ha cercare di falsificare un’ipotesi perché la scienza progredisca, vi dirò che anche il “confirmation bias” di Wason è stato falsificato (in parte). Infatti  Klayman e Ha nel 1987 hanno dimostrato, con molta matematica questa volta, che questa distorsione è un caso particolare delle “euristiche”,ovvero strategie di ragionamento, che usiamo di solito.

Bene, ora sicuramente vi sarete accorti che manca qualcosa: non vi ho detto la soluzione del giochino.
La soluzione è “I numeri sono in progressione crescente”. Tutto qui! Dubito molto che cercando conferme alle proprie ipotesi si possa arrivare facilmente alla soluzione: i casi positivi sono troppi. Mentre se si prova a “sbagliare” con metodo si capisce più velocemente che la regola è questa – nella sua ampia genericità. Infatti, chi ha indovinato, ha fatto tesoro delle sequenze sbagliate (come 7,5,9 ad esempio) e dopo un paio di tentativi ha potuto escludere ragionamenti sul pari e dispari, sulle somme, le moltiplicazioni, le divisioni e così via.

Ora però non odiatemi e mangiate più pistacchio!

 

10 pensieri su “Indovinare allunga la vita: ecco perché (II parte)

  1. Per chi fosse interessato, nel post precedente aprendo il codice sorgente, scoprirete in fondo che avevo scritto la regola …
    Nascosta nelle pieghe più nascoste del post, appunto 😀

  2. fantastico, bella dimostrazione di:
    “se devo cercare una soluzione non può essere troppo semplice”
    ovvero: “la vita ce la dobbiamo complicare!!!”

    1. sì Rosalba, credo che tra le altre cose, ci sia anche questa importante lezione da apprendere.
      La complichiamo inutilmente, e (sembra diabolico) la soluzione complicata sembra quella giusta!
      L’idea è quella di imparare dagli errori, più che dalle cose azzeccate. Solo che è difficile, perché tendiamo a scartare gli errori invece che .. apprezzarli.

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