Mindfulness is the new black

Consapevolezza è una parola con tanti significati: una persona “consapevole” può essere qualcuno che sa il fatto suo o qualcosa di spiacevole, oppure si assume la responsabilità di scelte anche difficili in un certo ambito (una persona consapevole della questione ambientale o politica, ad esempio).

Ma da qualche anno, “consapevolezza” ha assunto un’altra sfumatura, che come il proverbiale nero, va bene un po’ su tutto: mangiare, camminare, correre, respirare, vivere e fare terapia. Mi riferisco alla mindfulness ossia a quell’insieme di tecniche in larga parte derivate dalla meditazione tradizionale buddhista, che da oltre vent’anni vengono sperimentate in ambito clinico, e ormai stanno (quasi sempre) positivamente tracimando in ambiti non direttamente collegati con la psicoterapia e la psicologia clinica.

Definire la mindfulness un insieme di tecniche è però riduttivo: si tratta piuttosto di un atteggiamento fondamentale con cui possiamo guardare alla nostra esperienza quotidiana e imparare ad andare oltre quegli automatismi che causano sofferenza a noi e agli altri. Non male a pensarci vero? In realtà tecniche ed esercizi sono solo una conseguenza di questo atteggiamento fondamentale, e possono servire a rafforzare in noi questa posizione, estendendol0 a tutti gli abiti in cui possiamo “essere consapevoli”.

Fin qui vi siete incuriositi? Bene, la curiosità è un primo ingrediente della mindfulness. In breve di cosa si tratta? Cercherò di rispondere, anche se è un po’ un’impresa paradossale: riuscireste a spiegare che sapore ha una mela a qualcuno che non l’ha mai assaggiata? Immaginate: “Ecco è rossa fuori, piuttosto lucida, poi quando la mordi è bianca,  fresca, ma dolce, qualche volta è un po’ aspra, ma è gustosa e… poi sa di mela!” – così la midnfulness sa di mindfulness, ma ciascuno di noi può darle un morso e provare, qui e ora, sempre.

Ok, non tergiverso e ci provo: mindfulness vuol dire portare la nostra consapevolezza all’esperienza del corpo e delle sue sensazioni, delle nostre valutazioni, emozioni, pensieri e stati d’animo, e poi all’esperienza di quello che percepiamo intorno a noi, anche alle nostre relazioni interpersonali, in  modo da osservarle accogliendole intenzionalmente e senza criticarle o criticarci.

Ecco, non mi sono spiegato molto vero? Bene, proverò con un esempio ancora più semplice: prendete una mela, osservatela, sentite la sua consistenza in mano, liscia, ruvida, il peso, la temperatura, è una sensazione piacevole o spiacevole? Oppure neutra? avvicinatela alla bocca, sentite il profumo? E come è sulle labbra? fredda? calda? Sentite anche le labbra che premono un po’. E se con calma e lentamente iniziate a mordere la superficie, come cambia la vostra esperienza? La tensione della buccia, la pressione sugli incisivi, il gusto che inizia a espandersi nella bocca… datevi il tempo di assaporare, sentite le sensazioni che si generano al contatto con il palato, e poi quando iniziate a masticare, l’umidità, il succo,  la croccantezza della buccia e della polpa, le diverse consistenze che si manifestano e cambiano, attimo per attimo. E poi ingoiamo il nostro boccone, sentiamolo scendere, e sentiamo i sapori che cambiano, diminuiscono di intensità, come forse anche il piacere, e la nuova spinta ad un altro morso. Come vi sentite ora?

Sicuramente mangiare una intera mela così, senza fretta, gustando le parti piacevoli e spiacevoli, e addirittura estendendo la nostra presenza alla continua danza delle associazioni mentali (emozioni, pensieri, ricordi) ha due effetti: ci distanzia paradossalmente dall’esperienza proprio mentre partecipiamo di più ad essa, e ci unifica, facendoci scoprire una dimensione di agio che è in gran parte indipendente dall’esperienza che stiamo vivendo, e che nasce proprio da questa capacità di essere unificati. Da questa paradossale distanza (ma preferirei il termine equilibrio) verso l’esperienza viene anche la possibilità di liberarci, progressivamente, di quelle reazioni inconsapevoli (quasi fossimo guidati da un pilota automatico) che ci incastrano nello stress, nel disagio e nella sofferenza quotidiana.

Ora, se vi ho davvero incuriosito, potreste chiedervi: come faccio a coltivare questo atteggiamento?
Un modo è quello di seguire l’ottimo libro di Maria Beatrice Toro: “Sette Giorni di Mindfulness”, uno dei migliori manuali di “auto-istruzione” di mindfulness  che abbia letto negli ultimi anni. Questo libro molto agile ha due pregi: è chiaro, e propone dei semplici esercizi articolati su una ideale settimana di pratica.  Durante questa settimana il libro ci conduce a scoprire passo dopo passo cosa la mindfulness può offrirci per migliorare il nostro benessere e coltivare relazioni più sane. Ci sono schede per sostenere la pratica, istruzioni dettagliate, e con occhio particolare alla dimensione interpersonale, ossia quell’insieme delicato di azioni e reazioni che ci legano agli altri, e su cui è spesso così difficile portare la consapevolezza.

Per gli altri modi, potete sempre venire a trovarci a Centro Meditazione Roma o contattarmi, per qualche indicazione più precisa.

Volevo concludere questo post salutandovi con il celebre “meditate gente, meditate”, ma ormai il riferimento lo capirebbero solo i miei lettori più agée, quindi vi saluto augurandovi di essere felici (che non fa mai male, no?)

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