Parliamo insieme

Dire, fare baciare, lettera o testamento? Qualche volta parlare e comunicare sembrano due piani distinti e paralleli, tanto che l’interazione sembra un po’ il gioco della bottiglia: casuale, pieno di sottintesi e un po’ infantile. Ma è davvero così difficile parlare insieme?

La comunicazione è uno dei grandi temi di ricerca in psicologia. Dalla Scuola di Palo Alto, alla psicologia sociale, passando per teorie cliniche più o meno accreditate come l’Analisi Transazionale di Berne o la PNL, si possono trovare teorie rigorose e fondate sui dati sperimentali, oppure facili ricette senza basi, se non l’abilità di persuadere a perdere tempo e denaro con la promessa della felicità comunicativa.

Ma cosa davvero intendiamo per “comunicare” e per di più efficacemente?

Ho l’impressione che in realtà non si intenda tanto esprimere chiaramente i nostri pensieri e desideri, quanto “magicamente”  fare in modo che gli altri facciano quello che noi abbiamo in mente. Vorremmo persuadere piuttosto che comunicare. C’è una bella differenza, no? Per quanto chiaramente noi possiamo esprimerci, chi ci ascolta è libero di rispondere e fare come vuole.

La comunicazione è una delle dimensioni che ci rende più compiutamente umani. Siamo animali sociali, evolutisi da 150.000 anni per vivere in gruppo: questo vuol dire che la relazione e la comunicazione (che è il modo principale di costruire e mantener relazioni) sono state due caratteristiche vincenti, che ci hanno permesso di sopravvivere e prosperare. Noi  “umani” non facciamo altro che parlare insieme, anche quando siamo da soli, al punto che quando pensiamo stiamo dialogando con noi stessi!
Ma cosa vuol dire davvero  “parlare insieme” e come è fatta una vera comunicazione efficace?

Questa volta vi propongo un ottimo libro, economico e chiaro, che si intitola – che casualità! – “Parlare insieme” di  Friedemann Schulz von Thun (un nome imponente, non c’è che dire), edito da TEA . Per soli 8 euro avrete tra le mani un’ottima guida alla comunicazione, senza ricette magiche, piena di spunti su cui riflettere e qualche necessario cenno di teoria (ma poca, ben inserita, e adatta a chi voglia approfondire).

L’autore ci propone di considerare ogni cosa che diciamo o ascoltiamo (ogni messaggio, anche se un messaggio non è detto che sia inviato a parole) secondo quattro dimensioni, che lui rappresenta con altrettante orecchie.

La prima è la dimensione del contenuto. Si tratta proprio del dato di fatto in quello che diciamo. Ad esempio se dico: “Questa minestra è fredda!”, in questo messaggio c’è sicuramente l’informazione circa la temperatura della minestra, così come la percepisco. So già che avvertite ben altro dietro una frase di questo tipo …

E infatti la seconda dimensione è l’appello – ossia quello che vorrei indurti a fare; è molto spesso implicito, poco chiaro e meriterebbe molta attenzione: in quella frase potrebbe esserci l’appello: “Desidero che tu mi prepari una minestra calda, invece che questa fredda e desidero che tu, così facendo, mi dia tutta l’attenzione che voglio”.

Ma le cose cambiano se quella frase è rivolta da un marito seccato alla propria moglie, o da una mamma verso il figlio che non mangia cose calde. Infatti c’è di mezzo la definizione della relazione tra chi parla, che ogni messaggio porta con sé. In che posizione reciproca siamo? Chi sei tu per me? Chi ha più potere? Chi dovrebbe ubbidire? Che ruoli sto assegnando?

E poi, da ultimo, c’è la dimensione della presentazione di sé: pronunciare una frase dice sempre qualcosa di noi all’altro. Dire qualcosa in modo brusco, amorevole, neutro, sollecito, ansioso dà informazioni all’altro su chi siamo e su chi vogliamo essere in quel particolare momento.

Complicato? No! Basta prenderci un po’ la mano, o meglio l’orecchio.

Credo che rappresentarci così i nostri scambi aiuti a capire da dove viene fuori il blocco e il conflitto. Infatti, possiamo “camuffare” un messaggio e farlo sembrare qualcosa di diverso da quello che è. Facciamo un esempio: in una riunione tra clienti e fornitori, il rappresentante dei primi si lancia nella descrizione delle sue attività. Sembra un messaggio informativo, ma in realtà ha una forte componente di presentazione di sé  (“Siamo gran fighi in quello che facciamo!”) e definisce la relazione (“Siamo esigenti, perché siamo fighi: siete alla nostra altezza?”).  Oppure immaginate che un adolescente chieda alla madre: “Dov’è la mia maglietta blu?” – e lei risponda stizzita: “Dove stanno sempre tutte le magliette! Nel tuo armadio!”. Qui c’è uno scambio apparentemente informativo, ma che in realtà definisce la relazione tra i due, e specifica anche che la mamma vorrebbe che il figlio se la cavasse da solo, mentre il figlio vorrebbe tutte le magliette esattamente dove gli servono quando gli servono – o forse vorrebbe una casa tutta sua. Entrambi si presentano come abbastanza tesi.

Come si usa questa mappa della comunicazione? Intanto imparando a rispondere  ascoltando  il lato più importante del messaggio. Se il messaggio contiene un’informazione sulla nostra relazione, nella mia risposta devo tenerne conto – immaginate se rispondessimo aderendo fiscalmente ai dati: sembreremmo un robot o Sheldon Cooper.

In secondo luogo, si può imparare a fare un passo indietro e provare la strada della metacomunicazione. So che questa parola ha qualcosa di affine alla “metafisica” e sembra astrusa e poco naturale, ma in realtà significa fermarsi un attimo, dirsi e dire: “Cosa sto dicendo? Cosa mi stai dicendo?” e confrontarsi con l’altro su questo piano. La nostra comunicazione sembrava su un piano – ad esempio lo scambio di informazioni – ma in realtà conteneva appelli nascosti, segrete definizioni della nostra relazione, presentazioni di noi che ci sono ignote o che sentiamo disconfermate dall’altro: un universo di discorsi taciuti che continuano a viaggiare senza essere ascoltati del tutto. E spesso senza avere una risposta.

Si tratta di imparare a confrontarsi bene e ad arrabbiarsi per i motivi veri per cui decidiamo di farlo, piuttosto che per la minestra fredda…
O perché continuiamo a chiedere gelato al pistacchio a chi ha solo cioccolato.

2 pensieri su “Parliamo insieme

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