S.L. e la maledizione del q.b.

Siamo avvolti nel mistero. Nati deboli e nudi,  “gettati” nel mondo, dobbiamo imparare a fare tutto. Impariamo cos’è notte e giorno, impariamo a riconoscere il sonno e la fame, impariamo a parlare e a usare gli strumenti che, quasi letteralmente, sono il nostro habitat non naturale. Il mistero è così fitto che a dirla tutta non sappiamo neppure bene come riusciamo a imparare: quanti di voi saprebbero spiegare come fanno a tenere l’equilibrio in bicicletta? Eppure insegniamo ai nostri figli a usare questo instabile arnese di locomozione e, meraviglia, i nostri industriosi pargoli imparano!

La nostra vita è una trama di domande: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? E soprattutto chi è S.L. ?! Alle prime tre domande non ho una risposta, per l’ultima, abbiate pazienza.


Per ora vi propongo di vestire insieme a me i panni dell’esploratore del misterioso mondo delle nostre conoscenze inconsapevoli: fate finta con me di vedere per la prima volta le potenti immagini che sto per mostrarvi – attenzione! Niente è quello che sembra!  Dovrete cogliere le differenze, quindi come antropologi munitevi di taccuino, penna e spirito di osservazione partecipante.

Pronti? Video numero 1:

E ora, se avete retto lo shock, video numero 2:

Sì, avete capito S.L. è la celebre Sora Lella!

Intanto, ricordo pubblicamente che sono vegano: quale ampiezza di vedute dimostro nello scegliere delle immagini circa la preparazione di un piatto decisamente lontano dalla mia “cultura” alimentare!  Ma non è un semplice sfoggio di ammirevole flessibilità – piuttosto ha a che fare con il necessario straniamento che si prova di fronte alla diversità, a una nuova cultura: cerco di farvi ritrovare  lo sguardo sorpreso, curioso e nuovo che tutti abbiamo provato “la prima volta che”. Insomma, cerchiamo di montare psicologicamente in bici la prima volta – e non barate, senza rotelle.

Ora, l’impareggiabile Sora Lella mostra come fare la “sua” trippa alla romana, dando per scontato il suo interlocutore:  “Voi che siete madri di famiglia” . Elenca tutti gli ingredienti, mostra come tagliarli, accenna al procedimento e alle possibili varianti. Pecorino sì? Sì. E scivola inavvertitamente sul valore identitario della trippa: “Voi al nord nun la sapete fa’”. Il piatto non è solo un piatto, è cultura e identità.

L’altro invece è un video certamente meno simpatico, ma molto più chiaro: ingredienti elencati, pesati, illustrati e assemblati in un procedimento sequenziale chiaro. È algoritmico, cioè molto simile al programma che potrebbero eseguire dei calcolatori, che infatti preparano industrialmente trippe in scatola, minestre (buone) “come fatte in casa”, passati, sughi, dolci. Una catena di montaggio industriale e in larga parete automatizzata e standardizza pesi, temperature, acidità, fasi e ingredienti.

E la differenza è tutta qui – la Sora Lella non ha dato un solo peso, una sola quantità, una temperatura. Va per accenni, dà per scontato che sappiate già, se non tutto, quanto basta: sapete già quando le verdure sono rosolate, quando la trippa è cotta, a che altezza deve essere la fiamma, quanto sale ci va, quanto pecorino, e così via. È l’apoteosi del q.b. Ma come fareste voi a sapere già? Ovviamente, se siete madri di famiglia, sarete prima state “figlie” di famiglia, con una madre che cucinava e che avete avuto modo di osservare e che vi ha spiegato… Ma ne siete sicuri? Quanti di voi hanno visto una mamma insegnare a un figlio o a una figlia quanti grammi di sale vanno messi in un piatto, a quale temperatura deve essere la padella e quanto tempo occorre impiegare per rosolare le verdure o la carne? È da poco che le bilance sono entrate nelle nostre cucine, prima un piatto era giusto quando era “pronto”.

Insomma, stiamo scoprendo che, quando impariamo, molto poco è esplicitamente definito, quantizzato, descritto – la maggior parte delle cose che sappiamo le abbiamo apprese implicitamente! Quanti di noi ricordano la prima lezione d’uso della forchetta?

Stiamo scoprendo, grazie alla Sora Lella, che la nostra vita consapevole riposa su un ampio cuscino di sottintesi, impliciti, nozioni di cui non sappiamo l’origine e di cui non sapremmo descrivere compiutamente e precisamente a parole l’applicazione pratica.

“Spingi il pedale con una forza di circa x Newton inclinando il busto di y gradi sulla linea orizzontale e valuta se la spinta orizzontale, attraverso i movimenti collegati delle tue articolazioni, produce una coppia rotatoria sull’asse della bicicletta che dovrai compensare prima che il baricentro si sposti in una posizione di squilibrio di z cm…” – credo che questa mia descrizione dell’uso di una bicicletta raggiungerebbe due scopi: primo, dimostrare che la fisica non è purtroppo una disciplina che padroneggio bene (cari fisici lettori, siate misericordiosi!), secondo,  causare una lesione seria al malcapitato che volesse applicarla per imparare ad andare in bici. Don’t try it at home! E non tanto perché è sbagliata (eventualità più che plausibile) ma perché, anche nel caso in cui fosse un’accurata descrizione della meccanica e della dinamica del velocipede, non riuscireste ad applicarla: esattamente come misurereste x Newton di forza da applicare con il piede?.

Così, tra fornelli e pecorino, tocchiamo con mano la dimensione implicita, inconsapevole e inconscia della nostra vita mentale – un “inconscio” fatto prevalentemente di procedimenti, nozioni, conoscenze, oltre che di emozioni e desideri.  Si tratta della cosiddetta conoscenza tacita, di cui per primo ha riconosciuto il valore Michael Polanyi.
Questa dimensione “senza parole” non si può sempre tradurre in un discorso, nel senso che molto spesso, molto più spesso di quello che immaginiamo, non abbiamo accesso all’ampia dimensione tacita che in gran parte costituisce la nostra “mente”. Ma anche la nostra vista sociale: sarà poco accademico, ma il pecorino sulla trippa ne è un valido esempio.

Se poi, scivolando sul sugo metaforico della trippa inconscia, volete sprofondare nell’abisso della riflessione filosofica, potreste iniziare a chiedervi: quanto di quello che mi attribuisco (decisioni, pensieri, emozioni, convinzioni, atteggiamenti, desideri) sono “miei”? Quanto pesa questo oceano di inconsapevolezza sulla piccola isola di autocoscienza che chiamiamo “Io”? È davvero tutta roba nostra? Siamo responsabili di tutto quello di cui di solito ci riteniamo responsabili?
Io non ho una risposta, posso solo proporvi una lettura: “Sentirsi esistere. Inconscio, coscienza e autocoscienza” di Massimo Marraffa e Alfredo Paternoster (entrambi filosofi della mente). È un’ottima panoramica su questo tema, con una tesi provocatoria e affascinante, che come per un giallo non vi svelo.

Ora ho voglia di un panino, con dentro tutto quello che serve, nelle giuste quantità. Almeno credo. Ci va il pistacchio nel panino?

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